Di colore, color carne e altri bias – intervista a Giuditta Rossi

Di colore, color carne e altri bias

Ci sono espressioni chiare, altre equivocabili o, se non altro, che danno libera interpretazione. Una di queste è di colore, la traduzione italiana per definire una persona la cui pelle non è bianca.

Nell’analisi delle evidenze del report “Women in the workplace” per l’articolo su falsi miti e stereotipi (nota 1) siamo incappate in una riflessione sull’espressione women of colour che era citata più volte. Nelle note si chiariva l’espressione in lingua inglese (Women of colour include Black, Latina, Asian, Native American/American Indian/Indigenous or Alaskan Native, Native Hawaiian, Pacific Islander, Midlle Eastern, or mixed-race women), ma si trattava di un appunto che in lingua italiana fa emergere una complessità non risolta. Mentre in inglese con of colour si fa riferimento alle varie etnie (afro, indiana, etc), in italiano di colore si riferisce a un colore ben preciso.

Come tradurre quindi, visto che un termine equo, univoco, condiviso e accettato non esiste?

Abbiamo chiesto a Giuditta Rossi – brand strategist e co-founder, insieme a Cristina Maurelli, di Bold Stories https://boldstories.it/  e della campagna di advocacy virale Color Carne https://colorcarne.it/ – di riflettere con noi su queste tematiche.

Come definiresti il termine “donna di colore” e perché lo ritieni appropriato o inappropriato?

La questione è complessa, il termine presenta delle criticità ed è necessario fare una piccola panoramica sulla terminologia. “Di colore” nasce dall’inglese “person of color” per indicare in modo generico una persona non identificabile come “bianca”. Quando questa espressione è stata adottata nella lingua italiana, il significato si è ristretto per indicare solo le persone nere. La terminologia è carente dal punto di vista della rappresentazione, anche nella versione inglese, perché “di colore” nasce dagli stessi bias evidenziati con Bold Stories nella campagna Color Carne, in cui era evidente che, inconsciamente, si stesse definendo uno standard. Perché in fondo, “di colore” rispetto a chi?

Quello dell’intersezione tra colore della pelle, etnia, nazionalità e cultura è un ambito a cui servono parole nuove. Non è facile individuarle perché è un tema non risolto, anche a livello internazionale.

Qual è la tua opinione sull’uso della parola nera o nero per indicare le persone di origine africana o afrodiscendenti?

Appartengo a quella parte di professionalità e studio che ritiene che “nera” sia al momento preferibile all’espressione “di colore”, proprio per i motivi sopra citati. Anche questa parola presenta alcune criticità – come bianca del resto – perché non ci sono persone veramente bianche o nere. L’umanità è un mix di colori, ha mille sfumature. È una semplificazione quindi, ma finché non avremo di meglio è quella che ho scelto per definire me stessa.

Ma cosa succede a chi non è una persona considerata bianca o nera? Che parole utilizziamo? Al momento si tende a usare la nazionalità, la provenienza geografica, il luogo in cui sono nati i propri antenati, ma non è risolutivo, racconta solo una parte della realtà. In questo senso un bias che si riscontra spesso in Italia è pensare che una persona nera sia necessariamente di un’altra nazionalità, come se in Italia ci fossero solo persone bianche.

Cosa pensi dell’uso della n word (https://www.treccani.it/vocabolario/neo-n-word_%28Neologismi%29/ ), sia nella sua forma dispregiativa che in quella riappropriata, da parte di alcune persone nere attiviste o nel campo dell’arte?

Penso che non ci sia molto da dire: la n word è una parola fortemente discriminatoria, da non utilizzare in nessun contesto. Detto questo, se alcune persone discriminate scelgono di rivendicarla per loro stesse per cambiarne la narrazione, come accaduto anche con altre parole tipicamente identificate come slur – insulti o diffamanti – penso sia un loro diritto. Certamente questo non vale per chi non è oggetto di quella discriminazione.

Quali sono le principali sfide e opportunità che le donne nere devono affrontare nel contesto italiano e globale?

Tra i temi principali che colpiscono le persone nere, così come in generale tutte le persone discriminate, ci sono quelli della rappresentazione e dell’accesso. Sono dinamiche che hanno a che vedere con il potere, chi lo detiene e come si sceglie di usarlo. E poi c’è nello specifico la questione delle donne, in quanto oggetto di una discriminazione di genere.

Quello che vorrei vedere è una maggiore intersezionalità. È molto diverso essere una donna cisgender rispetto a essere una donna cisgender nera, così come lo è essere una donna cisgender nera con disabilità o una donna transgender nera. Le intersezioni sono tantissime e non dovremmo dimenticarcene.

Per questo ritengo che le attività di Diversità, Equità e Inclusione (DE&I), che sempre più si svolgono all’interno delle organizzazioni, giochino un ruolo importante nel lavorare attivamente per promuovere il cambiamento.

Quali sono le fonti di ispirazione e i modelli di riferimento che le donne nere possono trovare nella letteratura, nell’arte, nella musica e nel cinema?

In Bold Stories diciamo che “Chi non è rappresentat* non esiste”. Chi non rientra nelle narrazioni di cui facciamo esperienza ogni giorno tende ad essere meno visibile nella mente delle persone. Mettere nel mondo storie autentiche e coraggiose è un modo per far sentire le persone viste e riconosciute per chi sono davvero. In questo senso, il contributo delle donne nere è enorme in tutti i settori: autrici, registe, attrici, produttrici, performer, artiste… Ogni giorno sfidano lo standard e rendono gli spazi sempre più ampi, non solo per loro stesse e le proprie comunità di riferimento, ma per tutte quelle persone che nelle storie non si vedono mai. Queste donne sono troppe per essere menzionate, quello che posso fare è citare alcune tra le mie narrazioni preferite che, in momenti e per motivi diversi, mi hanno fatta sentire vista:

Il libro: Salvare le ossa di Jesmyn Ward.

La serie tv: Harlem di Tracy Oliver.

La canzone: Brown skin girl di Beyoncé.

Arte: le illustrazioni di Laci Jordan.

Come si può promuovere una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione sulle questioni di genere e razza tra le donne e nella società in generale?

C’è una cosa importante che abbiamo voluto comunicare con la campagna Color Carne e più di recente con il libro Stereotipi a colori: chiunque di noi può favorire il cambiamento nella vita di tutti i giorni, in famiglia, nelle proprie cerchie di amicizie, sui luoghi di lavoro. Ogni persona con le proprie competenze, con la sua storia autentica, può davvero contribuire a creare una società in cui chiunque possa sentirsi rappresentato.

Le imprese sono tra i luoghi in cui le persone passano la maggior parte del proprio tempo, e da cui può partire il cambiamento, creando una cultura interna in grado di valorizzare l’unicità delle persone, aiutare a riconoscere bias e stereotipi che impediscono, ancor prima della crescita, l’accesso delle persone sottorappresentate. Serve intervenire sui processi di recruiting per renderli più ampi, favorire e incoraggiare percorsi di carriera che riequilibrino le disuguaglianze, garantire equa retribuzione.

E poi raccontare storie autentiche e coraggiose con la comunicazione e attraverso i propri prodotti e servizi, per far sentire le persone rappresentate. Durante la campagna Color Carne l’esempio che ha sorpreso di più la nostra community è stato quello dei cerotti, che normalmente sono solo… rosa! Alcuni brand hanno creato invece cerotti dal rosa al marrone per adattarsi alle diverse carnagioni. È una cosa piccola, che può sembrare insignificante, ma non lo è affatto per chi ancora oggi fa fatica a trovare prodotti somiglianti. Si tratta di sentirsi parte, ed è quello che tutte le persone meritano. È qualcosa di cui beneficia non solo la singola persona, ma la società tutta.

Nota 1

A cura dFederica De Felici  Stefania Lofiego

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