Viviamo una dicotomia sul tempo, in alcuni casi freneticamente accelerato dall’abitudine all’istantaneità del digitale grazie al quale otteniamo tutto subito con un clic, mentre in altri contesti le lancette dell’orologio si dilatano: i giovani faticano a trovare lavoro, a sistemarsi in una propria abitazione – in Italia si lascia la casa dei genitori a 30 anni contro i 25 di Francia e Germania, i 20 del Nord Europa – e a cascata anche i figli arrivano più tardi e di conseguenza se ne fanno anche meno.
Cosa evidenziano i dati e il trend storico
I dati #ISTAT presentati da @Sabrina Patri, Direttore Centrale ISTAT, fotografano un’Italia con un importante #calodemografico: un numero medio di figli per donna di 1,25 nel 2021, con un innalzamento dell’età media a 32,4 anni delle donne al primo figlio, che si ripercuote in una diminuzione di secondi e successivi.
Siamo terzultimi nella classifica del numero medio di figli, peggio di noi la Spagna con 1,19 e Malta con 1,13, mentre altri Paesi hanno valori superiori alla media europea di 1,53, come Francia a 1,74, Repubblica Ceca 1,83, Romania 1,81 e Irlanda 1,78, ma tutti sono al di sotto del valore 2,1, che rappresenta il tasso di sostituzione naturale, il punto di equilibrio per mantenere stabile la popolazione.
L’Italia è il Paese delle #cullevuote con una diminuzione delle nascite che dalle 577 mila del 2008 sono passate a 393 mila nel 2022 (-184 mila nati rispetto al 2008). Il 45% delle donne tra i 18-49 anni non ha figli e di queste solo il 2% si dichiara Childfree. Dal 2007 la mortalità in Italia supera la natalità.
Quanti conoscono questi dati o hanno riflettuto sulle conseguenze di questo trend?
La campagna Plasmon “Adamo 2050”
@Plasmon ha recentemente costruito una campagna «Adamo 2050» a forte impatto, un cortometraggio (visibile al link: https://www.youtube.com/watch?v=UZntmC9lios) con cui ci ha proiettato nel 2050, all’arrivo dell’ultimo bambino nato, Adamo (centrata la scelta dello stesso nome del primo uomo), destinato a vivere circondato da adulti, a non poter giocare con suoi coetanei, a non avere una scuola.
Riflessioni sulla conciliazione genitorialità-lavoro
È questo ciò che vogliamo a livello di società? Non puntare sui giovani, sul loro futuro, sul futuro del nostro Paese e di tutte le nostre tradizioni?
Proviamo a riflettere su quali possano essere le cause di un’Italia che invecchia, cosa porti quasi la metà delle donne a non avere figli o averne solo uno e cosa potrebbe favorire un’inversione di tendenza, agevolando i nuclei familiari ad avere più figli. Possibile che ci sia un freno legato alla difficoltà di conciliare l’impegno genitoriale con quello lavorativo?
I dati ISTAT evidenziano che per le donne tra i 25 e i 49 anni, l’occupazione non è cresciuta e, per le donne con figli piccoli, è addirittura diminuita.
Le donne faticano ad entrare nel mondo del lavoro e quando hanno un impiego spesso rinviano la maternità, sperando di arrivare ad una situazione lavorativa più stabile, consapevoli che la maternità comporta una discontinuità sul percorso di vita.
Dopo il congedo parentale nel momento del rientro al lavoro, molte donne scelgono contratti part-time con orari ridotti, o addirittura rinunciano del tutto all’impiego.
Il gender gap si manifesta anche tra le mura domestiche: si tratta dell’home gender gap, ossia l’onere della cura familiare e dei figli sbilanciato con conseguente impatto sulle donne.
La genitorialità dovrebbe essere condivisa e maggiormente paritaria, eppure a livello culturale in Italia l’utilizzo dei Congedi parentali è prevalentemente femminile (80% verso un 20% uomini) e il Congedo di Paternità, periodo di 10 giorni di astensione obbligatoria remunerato al 100% – una conquista che ha richiesto 10 anni per passare da 1 giorno a 10 giorni – è in crescita, ma non ancora richiesto dalla totalità dei padri (nel 2021 solo 156 mila padri ne hanno usufruito su un totale di 400 mila nascite).
Esiste un distacco rispetto agli altri Paesi, non più solo verso quelli del Nord Europa come Svezia e Norvegia, storicamente avanzati per equilibrio tra ruoli, ma anche con la Spagna dove si hanno 16 settimane, pienamente retribuite e non trasferibili.
Se il congedo è prevalentemente appannaggio delle donne, forse è anche perché si tratta di un periodo non pienamente retribuito e le donne sono ancora penalizzate dal #genderpaygap che le relega a retribuzioni più basse degli uomini. L’allontanamento dal lavoro non aiuta affatto l’incremento della natalità: le donne che rinunciano al lavoro si ritrovano in una situazione familiare con meno risorse economiche e questo non innesca nessun meccanismo virtuoso.
La conciliazione tra la vita privata e il lavoro è per le donne un vero slalom, una prova di equilibrio. Eppure, dovrebbe esserci piena consapevolezza che il futuro della società passa attraverso un sostegno all’ampliamento delle donne nel mondo del lavoro, perché è evidenziato che nei contesti in cui le donne lavorano, cresce anche la natalità.
È altrettanto evidente che la maternità consente alle donne di sviluppare capacità di organizzazione, di ottimizzazione del tempo, di focalizzazione, empatia, ascolto. Si tratta di una vera e propria esperienza sul campo, che nel mondo lavorativo definiremmo come processo di learning by doing delle #softskills, delle #competenzetrasversali, che una volta fatte proprie si mettono in campo al rientro in servizio, con un eneficio anche sui risultati di business.
Sarebbe auspicabile fugare quei dubbi, che oggi portano a rimandare la maternità o sono un freno verso molteplici maternità, garantire tranquillità, accompagnando il rientro al lavoro consapevoli dell’energia che le neomamme metteranno a disposizione. E dovrebbe essere un circolo virtuoso, che consenta di affrontare successive maternità con altrettanta serenità.
La conciliazione vita familiare-lavorativa è oggi possibile in svariati contesti, perché esistono strumenti flessibili che agevolano il rientro al lavoro dopo una maternità, come la possibilità di lavorare da remoto con orari variabili e in questo la recente pandemia ha evidenziato come il #lavoroagile impostato con attività per obiettivi sia un’opportunità win-win. Queste soluzioni sono sempre più diffuse e aziende come #TIM le mettono a disposizione per rendere flessibile il rientro in servizio, così come sono stati raddoppiati i giorni per la paternità obbligatoria dal 2021 per favorire un supporto reciproco tra genitori.
Conclusioni
Dovremmo essere consapevoli del fenomeno della denatalità italiana, dell’invecchiamento della popolazione non compensato da nuove nascite. La spinta verso la genitorialità va sostenuta con politiche sociali, ma anche con strumenti che consentano la conciliazione del lavoro con l’impegno familiare e soprattutto soluzioni che supportino specialmente le donne nel rientro in servizio dopo la maternità, con la piena consapevolezza che ogni mamma porta un grande valore nel contesto lavorativo, e svolgendo la propria attività, contribuisce ad incrementare produttività e risultati di business.
A cura di Stefania Lofiego